Tornato da alcuni giorni bolognesi, da mattine cappuccino-e-cornetto, ho trovato una Berlino grigia e fredda. Ho allora trascorso un paio di giorni a leggiucchiare, un po’ dai libri in carta (a proposito ho comprato l’opera omnia di Kafka in tedesco! #eMoSoCazzi), un po’ in digitale e un po’ in rete. Ho così seguito una discussione lanciata da Critica Letteraria su un passo di un articolo di Roberto Cotroneo, dal titolo: L’informazione ha bisogno di humanities.
Il passo in questione era questo qui:
Il problema del web, e dell’informazione sul web, non è nell’innovazione, quella è facile: è nelle humanities. Solo che stiamo facendo morire gli studi umanistici nelle università italiane. Con danni veri. Un buon ingegnere deve imparare il greco, e un buon manager dovrebbe prima studiare san Tommaso e Aristotele, e solo dopo organizzazione aziendale. È finito un tempo e nessuno sa come farne iniziare uno nuovo: chi ha studi di humanities non ha potere, e chi ha potere snobba filosofia e letteratura, lingue antiche e arte. […] Tutti abbiamo bisogno di fondamenta per le nostre case. Ma senza un progetto, senza Le Corbusier che prendeva dalla sua storia, dalla sua vita, linee e idee per nuovi edifici, le fondamenta sono solo piloni di cemento armato inguardabili e inutili.
La prima cosa che mi viene in mente è che quella di Cotroneo è una visione umanistico-centrica della cultura. Se è vero che bisognerebbe studiare meglio latino e greco e gli autori classici (ma davvero serve conoscere il greco per fare l’ingegnere?), è vero anche che studiare le scienze è fondamentale (un po’ di informatica in più a un critico letterario magari non farebbe male, ne scrivo qui).
Ma, ahinoi, le scienze in Italia non se la passano benissimo. Per esempio, i quindicenni italiani sono all’undicesimo posto tra i cittadini dei Paesi OCSE per il livello di lettura, e al quattordicesimo posto per l’apprendimento in matematica e nelle scienze (PISA OCSE 2009). Dati che forse vanno letti nell’ottica della grave situazione culturale italiana: siamo un popolo di analfabeti? qui la risposta.
Il problema, poi, non è (solo) quello delle humanities nelle università italiane, ma il problema è le università italiane. Studio, ricerca e innovazione nelle nostre università sono indietro rispetto alle università degli altri Paesi – non ci sono università italiane tra le migliore cento università al mondo. Il “problema delle humanities” è, in realtà, un problema di cultura generale.
Se poi vogliamo concentrarci sulle humanities e il web, beh, a me viene in mente, perché ne leggo tutti i giorni, la ormai classica contrapposizione critica letteraria “tradizionale” (quella di chi ha studiato e ne capisce) vs. critica letteraria di un appassionato.
A tale proposito, mi pare interessante citare uno studio, per certi versi sorprendente, dal titolo “What Makes a Critic Tick?“. Come scrivevo qualche tempo fa, gli autori dello studio americano hanno analizzato i cento libri (non fiction) con i migliori giudizi della critica dal 2004 al 2007, confrontando il giudizio di critici professionisti con quello degli utenti amazon. Il risultato è che il parere medio di migliaia di utenti amazon coincide quasi perfettamente con quello degli esperti. Come a dire, davvero dobbiamo aver studiato Kafka in tedesco e Proust in francese per capire se un libro è bello?
Il vantaggio di essere chimico e di occuparmi anche di scrittura è di essere in due mondi (apparentemente) distinti e di vederne le somiglianze e le differenze. Ecco, è da un po’ che ci penso: le conferenze di chimici a cui ho partecipato negli ultimi due anni hanno dimostrato quanto la comunità chimica internazionale sia indietro, soprattutto in Europa, rispetto alla diffusione di social network e blogging – e poi ci lamentiamo che la “gente” non si interessa di scienza. Alla megaconferenza dei chimici europei dello scorso agosto, per esempio, non esisteva né un hashtag ufficiale né un wi-fi disponibile per i partecipanti.
Paradossalmente, la comunità delle humanities mi è sembrata molto più sveglia. Alla conferenza delle Digital Humanities (‘sti informatici-umanisti/digital-humanists sono però un ibrido tra computer geek e letterato…), tenutasi ad Amburgo nel luglio 2012, un mese prima di quella dei chimici, era un pullulare di tablets, un flusso continuo di tweets, una cascata di blog posts.
Un po’ di luce in fondo al tunnel, forse, c’è.
Per chiudere – che qui a Berlino è uscito il sole e bisogna approfittarne, se davvero riteniamo che l’informazione sul web sia di basso livello (ma ci sarebbe da discutere molto su questo, e poi, ne siamo proprio convinti?), una delle soluzioni possibili è che gli esperti e gli accademici muovano il culo dalla scrivania, vadano in rete e si mettano a fare concorrenza ai blogger.
Ma, per fortuna, in molti già lo fanno.
Cosa ne pensi? Davvero un ingegnere deve studiare prima il greco? Davvero bisogna leggere Kafka e Proust per capire se un libro è bello? L’informazione nel web è davvero di basso livello? Se ti va, lascia la tua opinione nei commenti.
8 thoughts on “Cari Accademici, Portate il Vostro Culo in Rete!”
mah! io credo che gli accademici snobbino il web per paura di perdere il privilegio di essere accreditati da una struttura accademica…mi spiego lo vedi anche nelle parole della laura che tiene a fare la distinzione tra accademico e appassionato…cara laura guarda io mi sono laureato a bologna in storia cont. e non ho mai saputo il latino e il greco poi men che meno ma conosco 6 lingue contemporanee e compreso il wolof che è una lingua africana che han cominciato a scrivere 10 anni fa (prima era solo orale e in senegal scrivevano in francese e in gambia inglese)…cioè gli accademici pretendono di starsene lassù e guardare i poveri scribacchini sfaccendati del web (perchè è prevalentemente a causa dell’aumento della disocupazione che tanta gente oggi in italia scrive) come dei coglioni ma io lo vedo bene che sono più di 10 anni che scrivo delle poesie decenti e me le pubblicano solo i siti e i quotidiani di satira…al centro di poesia unibo mi trattano come uno scemo però elogiano i testi di giovanotti (c ‘è qualcosa che tocca no?)
salut y’all
Caro Christian, conosco il mondo accademico scientifico e solo un poco quello letterario.
Sì è vero, ci sono dei centri di potere nelle università, poteri da mantenere, ma dubito che sia questa la ragione che gli accademici, alcuni, non tutti, snobbino il web.
Il problema, secondo me, che molti accademici, alcuni, ma non tutti, siano semplicemente indietro con i tempi. E che non sentano, perché non lo conoscono, il bisogno di esprimersi online.
E credo che questa situazione sia ancora più accentuata in Italia, in cui, come sappiamo, l’età dei professori è spesso quasi a tre cifre…
Su facebook un po’ di discussione http://www.facebook.com/groups/116830408394885/
La discussione in un altro gruppo facebook, https://www.facebook.com/groups/libriamotutti/497457143649733/?notif_t=group_comment
Il tuo post mi fa venire in mente quello che diceva il mio professore di logica all’università, ossia che agli studenti di filosofia avrebbe fatto molto bene studiare più matematica, logica, informatica, scienza per essere dei “filosofi” migliori domani. Da allora concordo.
Ricordo anche che quel professore sapeva bene da dove arrivasse questo vizio italiano, questa presunta supremazia degli studi umanistici: da Croce e dallo storicismo crociano che pesa ancora (icredibile) su buona parte della mentalita (se non della cultura) italiana.
Noto anche che sei un chimico, questo mi ricorda Primo Levi, anche lui chimico prestato alla letteratura (ma ce ne sono anche tanti altri…). Altro aneddoto universitario (ogi va così, perdonatemi): durante le lezioni di filosofia morale sulla shoah il nostro professore ci fece conoscere Jean Amery, scrittore austriaco di origine ebraica ma non osservante, che registrò la sua esperienza dei campi di sterminio in un libro molto bello “Intellettuale a Auschwitz”. Nel libro tra le altre cose dice a proposito degli intellettuali “Certo non intendo qui alludere a chiunque eserciti una delle cosiddette professioni intellettuali: l’aver avuto un buon livello d’istruzione è forse una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ognuno di noi conosce avvocati, medici, ingegneri, probabilmente anche filologi, che sono certamente intelligenti, magari anche eccellenti nel loro ramo, ma che non possono essere definiti intellettuali. Un intellettuale, come io vorrei fosse qui inteso è un uomo che vive entro un sistema di riferimento che è spirituale nel senso più vasto. Il campo delle sue associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico. Ha una coscienza estetica ben sviluppata. Per tendenza e per attitudine, è attirato dal pensiero astratto”. Questa cosa credo ci suggerisca due considerazioni. 1 Il vizio che crediamo italiano evidentemente solo italiano non è. 2 Il punto non è forse quello che chiedi in modo comprensibilmente provocatorio: “Davvero un ingegnere deve studiare prima il greco? Davvero bisogna leggere Kafka e Proust per capire se un libro è bello?” No, non è necessario. Sarebbe auspicabile, ma per allargare i propri orizzonti culturali e cognitivi. È questione di formazione, di arricchimento individuale.
Semplificando: se non c’è contaminazione ci sono solo due approdi possibili, entrambi negativi. Il medioevo e il positivismo.
Caro Marco, grazie per il tuo bel commento.
Mi piace molto la chiusura: “Semplificando: se non c’è contaminazione ci sono solo due approdi possibili, entrambi negativi. Il medioevo e il positivismo.”
Sono convinto anche io che la contaminazione sia fondamentale e che molte culture stiano in realtà convergendo. Penso in particolare a Arte e Scienza che sono più vicine di quanto crediamo.
Scrittore computazionale è anche un po’ il frutto di questa convinzione.
tranqui marco i tuoi aneddoti universitari sono abbastanza pregnanti e anzi ti dico che forse l’università (e ripeto parlo prevalentemente di bologna dove c’è dionigi a fare il rettore) tende verso un nuovo medioevo ma forse è l’italia che va verso un nuovo tipo di orgoglio nazionale (fascismo) quindi si ripresentano in forza i classici le gesta degli eroi wagner e i rammstein in concerto al palamalaguti. una volta andai a una lettura di classici di non mi ricordo chi all’aula magna di santa lucia sempre a bologna e fu una roba di una tristezza assurda il pubblico vestito come se dovesse andare al gala della croce rossa a monaco ma chi capiva quel che si leggeva non era neanche la metà (e io per fortuna capivo quasi tutto perchè anche se non so il latino è abbastanza comprensibile se conosci i suoi derivati).
si credo che non si voglia questa contaminazione (almeno in italia) per infondere quest’estetica fascista obbligatoria per le piccole menti dell’invecchiata italia…poi c’è sempre il problema di bertoni e il centro di poesia unibo che lui è cattolico e scrive poesie molto elementari e non può evolversi per cui la poesia a bologna rimane al palo proprio perchè c’è l’università a occcuparsi anche delle serate di poesia nei bars dove io non vado mai tanto cosa vado a fare? a confrontarmi con dei cattolici? è quello un altro problema grosso in italia i cattolici che se te scrivi male di dio e dei cattolici sei subito segato all’uni…ci sono i prodi all’unibo rega? dobbiamo renderci conto di dove ristagna il nostro medioevo
Molti temi intrecciati insieme che forse meriterebbero di essere approfonditi separatamente. Per es., per poter inquadrare meglio il problema della presenza degli accademici sul web sarebbe importante sottolineare: sul web “libero” per non dimenticare la differenza tra web libero e gratuito (per es. Wikipedia) e web a pagamento (per es. le pubblicazioni elettroniche sottoscritte da un ateneo, in Italia e all’estero e che non sono accessibili a tutti ma solo a chi ha pagato). Gli editori scientifici digitalizzano da almeno 15 anni: e i loro autori sono accademici, che quindi sul web ci sono da tempo. Ma non sul web libero. Quindi semmai la questione va riproposta in questi termini: perché gli accademici (ma più che altro in Italia) non si danno da fare sul web libero, su Wikipedia in lingua italiana, per es.? Una prima risposta sarebbe che Wikipedia ha un suo codice di regole, tra cui non pubblicare ricerche originali, che è invece il lavoro vero di uno che fa ricerca per mestiere. La seconda risposta è che in tutto il mondo la ricerca viene valutata (anche in Italia) e i vari enti, ministeri dell’istruzione ecc. preposti alla valutazione stabiliscono quali sono i criteri generali di una pubblicazione scientifica, tra cui essere pubblicata solo su certe riviste considerate “scientifiche” in base a certi parametri quantitativi (Impact Factor). Poi viene forse un certo disinteresse per la cultura “libera”. Ma diciamo che le caratteristiche “collettive” della produzione di cultura sul web libero in certi casi sono antitetiche alla cultura universitaria: che è basata sulla distinzione tra livelli di conoscenza diversa (chi studia e chi insegna). Invece tra i collaboratori di Wikipedia non esistono distinzioni: tutti possono correggere tutti. Per definire Wikipedia il critico americano Jaron Lanier nel 2006 ha coniato l’espressione Digital Maoism (Jaron Lanier, 2006. “Digital Maoism: The Hazards of the New Online Collectivism”, in Edge. http://www.edge.org/3rd_culture/lanier06/lanier06_index.html). Ma poi in realtà gli accademici sono presenti anche sul web gratuito: quando depositano le loro pubblicazioni in un archivio elettronico “aperto” perché abbracciano i principi del movimento open access per l’accesso aperto alla letteratura scientifica. Il punto è che quella è letteratura “scientifica”: per addetti ai lavori, quindi, non è divulgativa come Wikipedia. Mettendo assieme tutte queste considerazioni ecco che il problema diventa più complesso e sfumato. Forse l’invito finale agli accademici potrebbe essere ritradotto nell’invito a occuparsi anche di divulgazione sul web accessibile gratuitamente a tutti.