Ma che Diavolo sono le Digital Humanities?

Qualche mese fa, scrivendo un post sulla proliferazione di artisti e scrittori, mi sono inventato, in un impeto asimoviano, la Logoinformatica, una fantomatica scienza che analizzerebbe l’immensa quantità di letteratura e arte prodotta dal genere umano e che fornirebbe i mezzi per giudicare il lavoro di un artista o di uno scrittore. Ho scoperto, poi, un po’ sorpreso e un po’ no, che una disciplina simile esiste già. E si chiama Digital Humanities.

Cosa sono le Digital Humanities?

Le domande più semplici come al solito sono quelle per cui è più difficile trovare risposta. Per fortuna c’è Wikipedia che fornisce sempre un’opinione:

L’Informatica umanistica, in inglese Humanities Computing o Digital Humanities, è un campo di studi, ricerca, insegnamento che nasce dall’unione di discipline umanistiche e informatiche. Comprende ricerca, analisi e divulgazione della conoscenza attraverso i media informatici. Oltre ad avere una solida formazione umanistica, chi studia Informatica Umanistica sa trattare contenuti culturali con gli strumenti informatici appropriati (da Wikipedia).

In due parole: fare il lavoro degli umanisti con strumenti computazionali. Non è incredibile? Un’analisi statistica dei pronomi y- and th– nell’opera di Shakespeare; uno studio matematico dell’evoluzione della letteratura; una rappresentazione formale di un romanzo o di una sceneggiatura?

Le Digital Humanities non sono fantascienza

Immagino cosa pensi: questa è fantascienza, è impossibile utilizzare computer per studiare le arti e, comunque, Wikipedia è piena di errori. Sì, sono a conoscenza dei famosi Wikipedia Blunders o del terribile imbarazzo del fondatore di Wikipedia di fronte ad alcune pagine, diciamo così, creative. Per questa ragione ho cercato un documento più attendibile e, nella ricerca, ho trovato qualcosa che forse fa al caso nostro: un articolo dal titolo What Is Digital humanities and What’s It Doing in English Departments?, del Prof. Matthew G. Kirschenbaum, dell’Università del Maryland.

Buone notizie: le Digital Humanities non sono fantascienza. Nell’articolo, infatti, Matthew G. Kirschenbaum afferma chiaramente che la definizione di Wikipedia (quella in inglese) non è poi così male. L’autore, però, mette in evidenza un problema, anzi due: le Digital Humanities eludono una precisa definizione ed è, inoltre, difficile pensarle come una vera e propria disciplina.

Un ampio spettro di studi, così ampio che i confini diventano indefiniti. Cos’è Digital Humanities e cosa non lo è non è sempre scontato.

Una disciplina emergente con una definizione effimera

In effetti, anche il Digital Humanities Manifesto 2.0 parla di disciplina emergente:

Digital humanities is a diverse and still emerging field that encompasses the practice of humanities research in and through information technology, and the exploration of how the humanities may evolve through their engagement with technology, media, and computational methods.

Emergente sì, ma a una velocità sostenuta, secondo Edward Vanhoutte, editor in chief del Literary and Linguistic Computing. Nell’ultimo anno, infatti, le Digital Humanities hanno subito uno sviluppo significativo, attraverso quelle che l’autore chiama quattro evoluzioni: più fondi concessi per la ricerca, nuove aree di studio, un maggior numero di corsi universitari per laureati (master e dottorati, per esempio) e un aumento della produzione di articoli, monografie e saggi.

L’infografica, Quantifying Digital Humanities, preparata da Melissa Terras della University College London, conferma il quadro positivo descritto da Edward Vanhoutte.

L’importanza di una definizione

La sensazione è quindi che le Digital Humanities attraversino un momento di rapido cambiamento, in un fervento di nuove idee e nuove metodologie. Se questo è vero, allora la definizione della disciplina diventa cruciale ed è cruciale che la definizione sia aggiornata continuamente. Forse è proprio per questa ragione che ai partecipanti al Day of Digital Humanities viene chiesto ogni anno di proporre una personale definizione. Qui alcune delle risposte più interessanti:

I think of digital humanities as an umbrella term that covers a wide variety of digital work in the humanities […] Kathie Gossett, Old Dominion Univ, USA

A term of tactical convenience […] Matthew Kirschenbaum, University of Maryland, USA

A name that marks a moment of transition; the current name for humanities inquiry driven by or dependent on computers or digitally born objects of study; a temporary epithet for what will eventually be called merely Humanities.
Mark/Marino, University of Southern California, USA

Ma è una Rivoluzione!?

Vediamo se capisco bene. Le Digital Humanities sono un ramo avanzato delle discipline umanistiche che usa strumenti computazionali per lo studio di vecchie e nuove tematiche e al contempo si pone come scopo quello di rinnovare la pratica di ricerca nelle discipline umanistiche. Alla fine di questa evoluzione, la parola digitale probabilmente diventerà obsoleta.

Ho quindi cercato in google Rivoluzione e Digital Humanities e ho trovato un articolo di Jim Leach dal titolo The Revolutionary Implications of the Digital Humanities, in cui l’autore conferma il nostro sospetto.

A revolution has commenced where science and technology are melding with the humanities […] Indeed, it has been gratifying to watch the new wave of humanists who have breached the barriers between science, technology and the humanities […]

E se bucare le barriere tra tecnologia, scienza e discipline umanistiche non fosse sufficiente, Jim Leach conclude l’articolo così:

It could be that the development of a New Digital Class and the knowledge base made globally available through the digital humanities will provide impetus to civilizing human relations. Knowledge, after all, inoculates against intolerance and serves as a powerful antidote to despotism.

La prossima domanda: Perché le Digital Humanities?

Beh, per oggi è sufficiente: il post è già un po’ troppo lungo, no? Spero di essere riuscito a chiarire alcune idee sulle Digital Humanities e a fornire un punto di partenza per una ricerca più approfondita. Ovviamente, sono molti altri gli aspetti che meriterebbero di essere discussi. Uno, per esempio, è perché, cioè, perché abbiamo bisogno delle Digital Humanities?

Proverò a rispondere a questa domanda nelle prossime settimane.

Cosa pensi delle Digital Humanities? Davvero la matematica, la statistica, e i computer possono essere strumenti efficaci negli studi umanistici? Se ti va, condividi il tuo punto di vista nei commenti.

11 thoughts on “Ma che Diavolo sono le Digital Humanities?

  1. Molto interessante questa tua ricerca 🙂 Bravo, continua così. Io, boh, un’opinione non ce l’ho. Dammi tempo e forse forse riuscirò a farmela pure io 🙂

  2. Ma arrivate un po’ in ritardo 🙂 In Italia esiste da almeno un paio d’anni il corso di Informatica Umanistica all’Università di Pisa – solo per citare l’unico che conosco direttamente.

    Anche il campo delle digital libraries è affine. Tutta l’informatica testuale (filologia digitale, mark-up semantico dei testi, ipertesti ecc.) è molto vivace da parecchi anni. Non ho però dati a livello di insegnamenti universitari.

    In ogni caso sono d’accordo con la frase: “Alla fine di questa evoluzione, la parola digitale probabilmente diventerà obsoleta”. È un fenomeno comune a tutto il digitale (biblioteche digitali comprese): la novità smetterà presto di essere tale, e l’elemento digitale diventerà inscindibile, perché quotidiano e inevitabile.

    L’articolo ha un tono un po’ ingenuo in questo, ma è comprensibile: non è un’accusa verso chi scrive, ma è proprio un “prodotto” del contesto culturale italiano, in cui ogni cosa “digitale” affonda in un contesto di arretratezza. Venendo dalle facoltà umanistiche sono il primo a vedere quanta ignoranza e pregiudizio ci siano verso le tecnologie nel mondo degli umanisti, e quante carenze nella mia formazione ci siano. Tra l’altro, ho due amici esperti di digitale, un filologo e un archivista, ed entrambi sono considerate un po’ bestie nere nella loro comunità.

    Bel post in definitiva: molto interessanti la raccolta di letteratura che fate – tutte cose che non conoscevo (tanto per confermare quanto appena scritto!) 🙂

  3. Grazie per il commento. 🙂

    Se è vero che i primi studi in quello che in italiano si chiama Informatica Umanistica e in inglese si chiamava Humanities Computing risalgono a parecchi decenni anni fa (addirittura agli 40 e ai lavori di Roberto Busa), la disciplina, che ora ha preso il nome di Digital Humanities, sta emergendo solo negli ultimi anni.
    Per questo la definizione, per quanto sia un aspetto formale, è uno dei temi discussione più attivi.

    Come si diceva nel post, sotto il termine “ombrello” Digital Humanities, si raccolgono molti studi (che in comune hanno l’uso di strumenti computazionali e matematici) ma che sono molto diversi gli uni dagli altri.

    Questo, insieme ad altri fattori, rende l'”accademizzazione” delle Digital Humanities complicata.
    Se è vero che in ambito universitario esistono molte istituzioni legate direttamente agli studi in Digital Humanities, molto spesso, come ho potuto verificare al Digital Humanities meeting 2012 ad Amburgo, gli umanisti digitali sono ospiti di altre facoltà come Lettere, Sociologia, Informatica, Ingegneria…

    Tu scrivi “L’articolo ha un tono un po’ ingenuo in questo, ma è comprensibile: non è un’accusa verso chi scrive, ma è proprio un “prodotto” del contesto culturale italiano”.

    Hai ragione: l’approccio dell’articolo è ingenuo proprio per evitare l’effetto muro contro muro. Utilizzando questa voce da “esploratore” cerco di avvicinarmi a coloro che non hanno idea di cosa siano le Digital Humanities e che per varie ragioni si potrebbero porre con una certa ostilità nei confronti di questi temi.

    Sono contento, poi, di averti aiutato a scoprire alcuni articoli di cui non eri a conoscenza… 🙂

  4. Ho apprezzato il tono dell’articolo, proprio perché “simula” di spiegare qualcosa che all’orecchio comune suona – comprensibilmente – come un ossimoro. Ricordo che solo pochi anni fa la ministra Moratti dichiarò di volere abolire alcune lauree “assurde”, e fra queste ci infilò l’informatica umanistica. Come dire: che cosa è, Matematica Ariostesca? Oggi non è difficile farsi un’idea sulle DH, ci sono corsi universitari e persino aziende che sfruttano il “marchio”, ma quando negli anni novanta i colleghi ti chiedevano “in che campo lavori?”, rispondere “informatica umanistica” avrebbe provocato seri danni alla propria reputazione…
    Vorrei segnalare che da un paio d’anni esiste in Italia un’associazione nazionale che fa parte di una costellazione di associazioni sparse per il mondo: http://www.umanisticadigitale.it/
    Il panorama è molto vario e complesso – e per chi voglia saperne di più da una diecina d’anni ci sono molti buoni manuali scritti anche in italiano.

    1. Grazie del commento Domenico.

      Dalla conferenza dell’estate scorsa ad Amburgo, sono diventato un fan delle Digital Humanities.

      Ci sono tante somiglianze nei metodi usati nelle DH con la ricerca che porto avanti ogni giorno – soprattutto con la bioinformatica.

      Ovviamente la Moratti non sapeva bene cosa fossero le DH quando parlava di facoltà inutili…

      E hai ragione, credo che solo negli ultimi anni, finalmente direi, le DH cominciano ad acquisire la dignità che meritano.

      Grazie per la segnalazione!

      Arturo

  5. Interessante… mi piacerebbe molto sapere di più dei rapporti fra DH e bioinformatica. Magari potresti venire a raccontarcelo al nostro seminario interdisciplinare: http://www.newhumanities.org. Forse sai che Peter Robinson, un filologo neozelandese, applicò i metodi statistici della biologia evolutiva per mappare le relazioni fra testimoni dei Canterbury Tales. L’articolo divenne famoso anche perché pubblicato da Nature (http://www.nature.com/nature/journal/v394/n6696/abs/394839a0.html). Anche noi (cioè il mio gruppo di ricerca) abbiamo utilizzato tecniche mutuate dalla bioinformatica (multiple-sequence alignment) per realizzare un sistema per la rappresentazione della variazione testuale: http://eprints.qut.edu.au/39895/1/39895.pdf.

    1. Onestamente, di fare un seminario sull’argomento non me la sento.

      Qui a Berlino lavoro principalmente come chimico computazionale e solo in uno studio, pubblicato qui, mi sono occupato di Bioinformatica (utilizzando per altro degli strumenti molto semplici). Anche se, devo dire, l’argomento – i punti di contatti tra la bioinformatica e le digital humanities – mi stuzzica e prima o poi l’approfondirò, forse allora, potrei permettermi di parlarne.

      Però, caro Domenico, forse ti interessano quelli che io chiamo Biotexts, l’applicazione di strumenti bioinformatici alla letteratura, di quello potrei parlare. In questo blog post spiego un esempio di Biotext su Pavese.

      Ho realizzato delle “cose” simili su Shakespeare, Dante e Dickinson (al momento purtroppo, per motivi tecnici, il sito inglese è giù).

      Che ne pensi?

  6. Anzitutto, complimenti per il blog.
    La situazione in Italia è pressappoco la seguente. Nelle università (io porto il caso di Pavia, dove frequento lettere moderne), già nella laurea triennale vengono esposte le risorse in linea: una delle più incredibili è il Tesoro della lingua italiana delle origini [http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/], compilato dall’OVI con sede nell’Accademia della Crusca a Firenze e che permette una ricerca per forme in un corpus che va temporalmente dal placito capuano (960) alla morte di Boccaccio (1375). Inoltre si seguono corsi in linguistica computazionale e applicata. In realtà all’estero la dose è ancor più massiccia: a Helsinki, dove ho vinto un bando erasmus, già al secondo anno si impara a programmare con Python e ad arrabattarsi nel parsing morfologico. Questo dipende in gran parte dalla diversa struttura didattica: in una si fornisce una solida e vasta base per specializzarsi in un secondo momento, nell’altra si intraprende da subito un curriculum esclusivo. Questione di scelte. Non va dimenticato, da ultimo, che a tutto ciò è dedicata una sezione del CNR, l’istituto Antonio Zampolli.
    Ma il “sugo di tutta la storia” è un altro. Io stesso sono talvolta meravigliato da quanto all’ambiente accademico umanistico repella la tecnologia digitale. Tuttavia al contempo bisogna non scambiare per ritrosia quella che è correttezza metodologica. Ciò che contraddistingue questo enorme gliommero sotto l’etichetta Humanities si contraddistingue non tanto per l’oggetto (nessun astronomo ha diffidato Calvino dal pubblicare le astruserie dentro alle Cosmicomiche), quanto, infatti, per il metodo. Quest’ultimo si muove entro un quadro definitorio e probatorio dove, infine, chi decide è il iudicium del filologo, dunque non è sperimentale né formalizzato.
    Le DH vanno senz’altro applicate, ma non senza evitare “ingenuità”, dato che sono state invocate, cioè sempre chiedendosi: fino a che punto le informazioni, senz’altro arricchenti, che ho estratto da un’indagine digitale, esauriscono questo testo e sono da considerarsi definitive? Sia da ammonimento il caso di Foster, la cui attribuzione della Funeral Elegy for William Peter a Shakespeare si è rivelata in seguito essere di John Ford [http://en.wikipedia.org/wiki/Donald_Wayne_Foster].

    1. Caro Duca d’Auge,

      apprezzo il tuo commento e condivido ciò che scrivi.
      Voglio dire anche in una disciplina anni luce lontana dalle digital humanities come la chimica computazionale, quella in cui lavoro, si potrebbero scrivere cose simili.
      Mi spiego.
      La chimica computazionale è una disciplina che usa computer, matematica e algoritmi per esplorare e magari risolvere problematiche chimiche. Una reazione, un’interazione, una struttura si studia al computer, provando a dare risposte utili per il chimico sperimentale. Il fatto che la chimica computazionale sia ormai una disciplina accettata e affinata, non esclude che, dopo aver premuto il tasto enter, sia il chimico, l’operatore cioè, a dover giudicare la risposta del programma. Una risposta c’è sempre – un’energia, una distanza, una struttura, ma spesso quello che vien fuori è fondamentalmente carta straccia. Anche in chimica computazionale è il giudizio del chimico e la sua intuizione che fanno al differenza.
      La verità è che siam ben lontani da un computer che dia una risposta precisa a una domanda precisa. Finché non ci arriveremo, e credo che prima o poi succederà, avremo bisogno di cervelli pensanti che siedano davanti ai monitor, magari con carta e penna sulla scrivania.

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